Mia nonna

Mia nonna ha passato oltre metà della sua vita incazzata col mondo, sempre col broncio e la fronte corrucciata.Farla sorridere era per tutti un’impresa non da poco.Aveva avuto un’esistenza del cavolo, la poverina.Nelle rare occasioni in cui era disposta a guardarsi indietro e raccontarmi degli aneddoti del suo passato, mi sembrava di essere in un romanzo estremo tipo Anna Frank. Senza essere Ebrei di famiglia. Erano indubbiamente racconti di fame e povertà. Tematiche da documentario di Paolo Mieli e la guerra, quella che si ricordava lei, non era un campo dal quale esci semplicemente vincitore o vinto.La guerra che le era rimasta impressa era subdola e persistente per tutti. Si dividevano tra fratelli una merenda a base di semplice pane, quasi litigandoselo.

 

Questo, dal punto di vista della retorica del “si stava meglio, quando si stava peggio”, fa indubbiamente riflettere sul fatto che uno dei problemi di noi Argonauti del terzo millennio sia l’avere troppo di tutto.Non siamo più capaci di sognare, perché non c’è niente che desideriamo. Viviamo nell’ illusione che ogni cosa sia a portata di mano. Ma se ci allunghiamo per afferrarla, ci si paralizza l’arto e quello che volevamo sfugge come una nuvola di passaggio. Questo perché non desideriamo le cose giuste. Pensiamo di volere qualcosa, ma segretamente aspiriamo ad ottenere il contrario. Insomma la vita è piena zeppa di contraddizioni e seghe mentali.

Ma torniamo a mia nonna. Le vicissitudini e le sventure l’hanno trasformata in una lady di ferro. Postura militaresca e contegno British. Elisabetta II è una da Zelig a confronto.Aveva un atteggiamento al limite del manipolativo, per cui quando ci sentivamo durante l’anno, ci domandava costantemente: “quando scendi a Napoli?”. Per questa trafila si passava tutti e tre noi fratelli a turno ogni domenica. Ovviamente si rispondeva a monosillabi e si passava alla domanda successiva, che quasi sicuramente avrebbe riguardato il clima, la cena o, peggio ancora, la scuola. Anche nelle telefonate la fantasia era bandita, per partito preso.

Quando finalmente arrivavamo, dopo un estenuante viaggio in macchina, in cinque-più-il-cane (due dei quali sofferenti per mal d’auto), l’accoglienza era da primo ministro, più che da nonna che rivede i nipoti dopo un anno.Ci scortava in casa mostrandoci dove posizionare i bagagli, con la preoccupazione sul volto, per tutto il ciarpame che di lì a poco le avremmo sparso in giro.

La beccavo poi spingere, non vista, le valige in angoli remoti (dietro al divano ad esempio) per assecondare la massima “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, restituendole una parvenza di ordine, nonostante tutto. Più lo faceva e più si ritrova il casino in giro. Più si raccomandava: “non toccare questo, non rompere niente, ché ci tengo” e più le combinavo danni, negando ovviamente fino all’evidenza ogni mia responsabilità. L’ultima credo fosse una presa di corrente che le sradicai dal muro, staccando la spina di una radio. Non seppe mai la verità. Aveva ampiamente sottovalutato le mie abilità menzognere e finì col portarsi il dubbio nella tomba.

 

Un’altra cosa che la faceva incazzare a morte, ma che a me divertiva all’inverosimile, era la mia assoluta mancanza di deferenza, quando mi mostrava, costretta da me, dei ritratti del passato. Il suo lato British prevedeva che si osservassero le foto degli antenati con dovuto rispetto. Io me la facevo sotto dalle risate e commentavo pettinature e look bizzarri, oltre che espressioni dementi, in un momento in cui la fotografia era analogica, per cui scattavi e “buona la prima”.

Le si illuminava il viso solo quando parlava di mio nonno, di quanto era bello da giovane con la divisa della Pubblica Sicurezza. Alto, occhi azzurri, accento esotico (era messinese). Ora capisco quanto lo amasse, anche con l’Alzheimer, che si mangiava le parole, dimenticava tutto e fissava il mondo con occhi vuoti, perché aveva perso la voglia di vivere. Lo amava talmente da prendersene cura per oltre vent’anni. E quando se n’è andato, lei piangeva di notte, mentre accarezzava la sua foto che teneva sotto al cuscino.

 

L’ho sognata, mia nonna, l’altra notte. Mi chiedeva che fine avesse fatto la “pezza”gialla della cucina. Questa delle pezze era un’altra fissazione. Aveva sul lavabo un panno quasi sempre giallo, che poteva utilizzare solo lei, perché gli altri non lo strizzavano bene e finiva che puzzava e andava messo una notte in candeggina.Non sta tranquilla mia nonna nell’aldilà, probabilmente per tutte le palle che le propinavo per sottrarmi alle mie responsabilità. Vuole sapere dove sta la sua adorata “pezza” gialla del lavello. E allora sento che devo fare la mia parte per assicurarle un po’di serenità.

Voglio costituirmi e confessare tutte le marachelle che andavo in giro a combinare, mentre lei si guardava “Sentieri” sul divano e puntualmente si addormentava. Ebbene sì, nonna. La veneziana del bagno l’ho bloccata su io e non i ladri. Ti ho spaccato la presa in cameretta, che tu utilizzavi per stirare e non solo quella. Ho disfatto un paio di soprammobili sul mobiletto all’ingresso, ho letto di nascosto una copia del “manifesto del partito comunista” che apparteneva a mio padre e mangiato a tradimento il tuo adorato gelato carte dor al caffè. Infine ho usato la tua adorata “pezza” per pulirmi la punta delle Converse.

Ora che ho vuotato il sacco, però, puoi farmelo un sorriso dal paradiso, ché l’allegria non ti costa niente!

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