racconto breve infanzia barbara gentiluomo

L’uomo nel cerchio di vetro

Cosimo viveva da solo. In un piccolo appartamento al piano terra di un palazzo perbene. Passava le giornate guardando il mondo attraverso un buco circolare ricavato nel vetro di una porta di legno scura. Faceva il custode. Si alzava molto presto al mattino e saliva all’ultimo piano per lavare i pavimenti in marmo colore crema delle scale.
Piano piano scendeva ai piani inferiori, trascinandosi il secchio con l’acqua profumata. Alla fine profumava anche lui.
Cosimo era un uomo tutt’altro che tranquillo. Non disdegnava il linguaggio scurrile e non si tirava mai indietro se c’era da litigare.
Era rimasto vedovo molto presto. Ma non era uno che si perdeva d’animo. Sapeva cucinare bene, perché aveva fatto il cuoco. Non quelli di oggi però. Lui era di quelli che si sporcavano le mani e portava sulle dita i segni della fatica. Me le ricordo le sue mani, grandi e callose, capaci di schiaffoni che lasciano il segno e carezze dolcissime. Con quelle manone ci apriva le noci, per dire. Ci lavorava il ferro. Sistemava i fiori, che ogni domenica portava alla moglie al cimitero. Ci stringeva il volante della sua macchina scassata, le poche volte che andavamo da qualche parte. Era in grado di riparare tutto.

Era un uomo rabbioso, spesso. Se litigava con qualcuno, il più delle volte finiva male. Lo era con tutti, irascibile, tranne che con me, che ero sua nipote. Aggiustava qualunque cosa, eccetto la sua povera esistenza. Col suo carattere rovinava tutto e molti non riuscivano a guardare oltre l’apparenza. Io si. Io lo capivo al volo. Tra noi c’era un’intesa speciale, anche dopo che è passato a miglior vita e mi appariva in sogno. Aveva capito che non ero una da troppe smancerie e lo rispettava. Non ti chiedeva mai niente. Gli bastava ciò che potevi dargli.
Quando andavo a stare da lui in estate mi tirava su a spaghetti con le telline e vino buono del paese, la cui gradazione alcolica avrebbe fatto sbiancare anche Bukowski. A me stava bene quel rituale della sera. Io e lui a tavola coi piatti di ceramica di mia nonna e la sigla del Tg1 in sottofondo. L’intrattenimento poi si arricchiva di una serie di epiteti irripetibili all’indirizzo del politico di turno. Era a suo modo abbastanza coerente: odiava tutto e tutti. Credo di aver ereditato da lui l’inclinazione al linguaggio colorito e l’insofferenza nei confronti degli altri esseri umani.

Da lui non ti annoiavi mai. C’era sempre qualcosa da fare nel palazzo. Spesso salivamo sulla terrazza a stendere il bucato. Prendevamo l’ascensore. Lui srotolava un mucchio di monetine da 10 lire e ne infilava una nella fessura accanto alla bottoniera. Sentivo la moneta cadere nella cassettina di ferro dorata e potevamo schiacciare il pulsante. Si sentiva un tonfo. Poi un altro.Lui apriva le due porticine e poi quella esterna di ferro e ci trovavamo all’ultimo piano. Non c’erano finestre, solo una porta in legno con scanalature orizzontali. Infilava la chiave ed eravamo all’esterno. Scorazzavo insieme a mia sorella e ai miei cugini, schivando le lenzuola stese, mosse dal vento. Spesso era il tramonto e da lontano si vedeva il sole infilarsi tra le palazzine, mentre il cielo imbruniva. Trovavamo il cielo lassù e non lo sapevamo. Quel rituale apparentemente banale ci donava un assaggio di libertà.

Era una scuola di vita quel palazzo. Imparavi, ad esempio, a dividere le monete a seconda del valore. Ne raggruppavi in pile da dieci e le arrotolavi nella carta delle pagine gialle vecchie. Il fai da te non mancava mai. Cosimo era spinto, più che dalla creatività fine a sé stessa, dall’esigenza di rendersi più sopportabile l’esistenza e quel lavoro di merda, che detestava, ma che gli dava uno stipendio ed un tetto sulla testa. Non era tipo da andare da Leroy Merlin, lui. A parte che ai tempi non esisteva, ma era più il genere di persona che, se lasciato solo su un’isola deserta se la cava ed anche alla grande. Se gli serviva un attrezzo che non aveva, ne modificava uno tra quelli nella cassetta ed il gioco era fatto.

Se si rompeva qualsiasi cosa, aveva subito la soluzione. Di norma, prima si abbandonava al turpiloquio. Chiamava a raccolta tutte le divinità maggiori e minori del Cristianesimo, perlopiù. Le faceva nere e quando si era “scaricato”, passava all’azione. In poco tempo il problema era risolto. Certo, ogni volta che sorgeva un imprevisto, il Cristianesimo ne usciva con le ossa rotte ma, blasfemia a parte, non c’era intoppo che non fosse in grado di sistemare.
Cosimo per me era un inventore, un genio sotto le sembianze di un trasandato e burbero portiere. Ne aveva la stoffa. Il carattere insofferente, intollerante, che si infiammava come una torcia per un nonnulla. Comprendeva anche cose complicatissime al volo, ma non accettava che tu ci potessi mettere un pò di più a capire ed iniziava a smadonnare. Ma non si dava mai per vinto. Era caparbio e per questo voleva anche avere sempre ragione. Diventava un pò critico parlare soprattutto di politica, ma d’altro canto la politica e la religione, si sa, sono argomenti da evitare con le persone alle quali tieni. Io per la politica ero troppo piccola ed alla religione non davo troppa fiducia. Cosimo quindi era per me la persona giusta. Era carino quanto bastava non ti trattava mai da idiota. Ti faceva fare cose da grandi, ti permetteva di stare lì mentre batteva il ferro incandescente o manovrava attrezzi taglienti e appuntiti. “Mi passi la sega?” Non si poneva il problema se lo stava chiedendo a me che avevo otto anni. Provate a farlo oggi. Vi arrestano.

Malgrado gli acciacchi, non era uno a cui piaceva poltrire. Si alzava molto presto, l’ho detto, ed aveva da fare per tutto il giorno, fino a sera. All’ora di cena, chiudevamo i due portoncini e la porta con il cerchio di vetro e smettevamo di guardarci il mondo da dentro. Ci chiudevamo in casa per la notte e dormivamo nel lettone della nonna, con la testiera in ottone decorata, dove lui infilava ogni notte la sua fede nuziale. Ce l’aveva quasi sempre, finché non ebbe le mani troppo gonfie per infilarsela. Io dormivo dal lato della nonna. Spesso però non riusivo a chiudere occhio per via di un cartone animato che vidi una sera insieme a lui. C’era la mano di un morto che sbucava dal pavimento ed io immaginavo la mano di mia nonna che veniva a toccarmi mentre occupavo il suo posto nel lettone. Non gliel’ho mai raccontata questa cosa. E lui quando mi alzavo, non  appena lo sentivo uscire per mettersi a lavorare nel palazzo, spesso mi rimproverava. Mi diceva: “tu che puoi, dormi un altro pò!”. Non sembrava particolarmente entusiasta di avermi fra i piedi alle sei e mezza del mattino, ma lo capivo. Aveva da fare.

Cosimo se n’è andò via da questo mondo un’estate, che io neanche me ne stavo rendendo conto. Aveva mal di stomaco e se ne lamentava. Alla fine lo portarono in un ospedale che sembrava Beirut dopo i bombardamenti. Dicevano che non c’era niente che potessero fare, ma io non l’avevo capito.

Ero al liceo e combattevo la mia battaglia contro il mondo, avevo anch’io da fare. Mi convinsi che ce l’avrebbe fatta, perchè io da che ero nata, non l’avevo mai visto stare male. Mai una febbre, mai un giorno di permesso. Gli unici giorni che si concedeva, erano Natale e Santo Stefano, quando chiudeva la guardiola e prendeva l’Intercity per venire a Milano a trovare la figlia. Era una festa che durava troppo poco. Ma non “poteva lasciare il palazzo solo”, così ripeteva.

Alla fine dell’estate ritornammo a Milano. E tornare, tante volte, per noi significava lasciarci alle spalle cose, persone, situazioni. La Stazione Centrale o il Casello di Melegnano erano come dei portali interdimensionali. Una volta varcati, si lasciava tutto fuori. Ti immergevi nella tua esistenza a ritmi da fuori di testa, dopo un mese passato a non guardare nemmeno l’orologio. Ma io credevo che non se ne sarebbe andato quella volta.

Eppure venne l’istante in cui ti arriva quella dannata telefonata. E tu resti lì, senza parole o cercando di dire qualcosa che non suoni troppo imbecille. La verità, l’ho capito dopo, è che non c’è niente da dire, quando uno se va da questo mondo.

Ricordo che era ora di cena ed il telefono in cucina si mise a squillare. Mia madre afferrò la cornetta e cominciò a parlare. Non era sconvolta, non pianse. Forse lei l’aveva capito come sarebbero andate le cose. Io no e finché non vennero a dirmelo a chiare lettere, mi crogiolavo ancora nella convinzione che Cosimo da quel posto di merda sarebbe uscito e sarebbe tornato a casa sua, dove io l’avrei trovato l’estate successiva.

Chi non lo ha conosciuto non può saperlo e sicuramente queste poche righe non gli avranno nemmeno reso giustizia. Ma Cosimo era un genio. Diceva sempre che se avessero inventato i computer quando lui andava a scuola, lui avrebbe fatto faville, con la testa che aveva. Io ci credevo, perchè aveva un’intelligenza fuori dal comune.

Era anche un cazzo di burbero intrattabile, ma cercava di stare al mondo, a suo modo, senza nessuno che gli avesse mai mostrato come si fa. Ti insegnava che in questo mondo nessuno ti regala niente e che ti devi saper arrangiare con quello che hai. Ma ti dimostrava anche che, in mezzo a tanta gente che vorresti mandare a quel paese, prima o poi qualcuno con cui hai qualcosa di speciale lo trovi. E io ce l’avevo. Con lui.

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