Sconcerto di Capodanno

 

É l’ultimo dell’anno e sono uno straccio. Ieri sera si è tirato tardi. Il tentativo ultimamente è quello di imbrigliare gli ultimi spasmi di un anno nato morto, in un oblio, dal quale non possano più uscire. Non pensarci. Dimenticare. Perlopiù.

Preambolo

Se devo scegliere una parola per quest’anno che sta esalando, mi viene in mente solo “rotture”.

In primis, le rotture di coglioni. Questo periodo credo sarà ricordato dalla storia, semmai ci sarà qualcuno che si prenderà lo scomodo di raccontarla, come quello della bassezza. Culturale, ideologica, politica, umana. Le rotture di coglioni all’ennesima potenza, insomma.

Questo è stato il momento delle lotte umanitarie di tendenza. Si è aderito ad una battaglia, se questa rientrava nei trend topics. Se poi si era testimoni di ingiustizie quotidiane, quelle non le si considerava, perché si sarebbe rischiato di diventare impopolari. E Dio non voglia.

Sì, ma questo è stato soprattutto il periodo delle rotture di legami importanti. Di quelle cose che credevo irrinunciabili e che invece, ora che non ho più non mi dà neppure troppo fastidio, infondo.

Sconcerto di Capodanno

È come se mi fossi trovata, al principio di questo anno infame, sulla banchina di una stazione ad attendere il mio treno, insieme a tutti quelli che conosco. Ad un certo punto, man mano che i mesi passavano, i treni su quel binario si avvicendavano. Chi arrivava, chi partiva. Io impettita, la mia valigia un una mano, non scollavo lo sguardo dal tabellone, che avrebbe indicato anche a me il momento di salire a bordo.

Le lettere luminose sullo sfondo nero ruotavano, si arrestavano, io ferma al mio posto, tenevo la maniglia del mio bagaglio in una stretta costante.

È arrivata la pioggia, ad un certo punto, la grandine. Ma nessuno di noi si è sconvolto. Eravamo al riparo sotto la tettoia e non smettevamo di aspettare il nostro momento. Perché è questo che si fa nella vita. Si aspetta il proprio momento.

Improvvisamente si è udito un brusio contrariato sul binario. I treni han cominciato a saltare le corse, altri ad arrivare con grande ritardo.

“Pazienza” ci siam detti “siamo in Italia”. Dopo un iniziale malcontento, abbiamo ripreso a fare ciò che facevamo prima. Un bel niente.

Poi, è arrivato lo sconcerto. Dagli altoparlanti una voce lontana e gracchiante ci informava che da quel momento in poi, solo quelli con alcuni requisiti avrebbero avuto il permesso di salire sui treni. Una volta erano quelli coi capelli biondi, un’altra quelli con la valigia blu, un’altra ancora quelli alti più di un metro e settantacinque, senza scarpe.

La gente si è smarrita. Ci guardavamo in faccia l’un l’altro. Adesso il tabellone che ci aveva rapito gli occhi passava in secondo piano. Non era più “Arriva il mio treno e salgo”. Ora era cambiato in “Arriva il mio treno ed attendo il permesso di salire”.

Questo implicava che, anche se finalmente si fosse palesato il treno che aspettavo da un anno, avrei potuto non avere l’autorizzazione a salirci.

Cominciavo a pensare che questa roba del treno fosse una fregatura. Se anche fossi rimasta un secolo sulla banchina, ci sarebbe stata la possibilità di marcire in quella stazione. Mi domandavo se ne valesse davvero la pena.

Intanto attorno a me a gruppi ordinati, i miei conoscenti si incolonnavano via via per colore dei capelli, altezza, tipo di bagaglio. Sembrava un gigantesco Tetris umano, visto dall’alto. Le figure cambiavano di volta in volta rapidamente ed in modo coerente. Non citerò George Orwell, a questo punto. L’ho già fatto l’anno passato e mi ha portato sfiga. Ma soprattutto non voglio evocare forme eggregoriche negative, almeno in questo ultimo respiro d’anno.

Tuttavia la situazione si faceva paradossale. I miei conoscenti mi passavano accanto come nulla fosse. A gruppi. Ad ondate. Anche i miei parenti più stretti. Il mio sconcerto cresceva.

Nella mia mente avremmo insieme sabotato il primo treno. Tutti insieme. In virtù di ciò che ci legava, su quel convoglio ci saremmo stati tutti. Uniti. Come uno. Ma via via che i giorni ed i mesi passavano, il timore, prima latente, di restare ad ammuffire in quella stazione cresceva negli sguardi, ormai densi di panico, di tutti. In quei volti non c’era più un NOI.

La banchina, nonostante il caos imperante, a ritmo della voce gracchiante degli altoparlanti, si svuotava progressivamente. Lo sconcerto mi aveva ormai assalito. Non c’era più quasi nessuno in quella stazione.

Mi era sempre più chiaro che io quel treno non l’avrei mai preso.

Ad un certo punto mi sono arresa o, per meglio dire, Ho preso una decisione. Ho deciso di smettere di tenere gli occhi incollati al dannato tabellone. Di cercare un’altra strada, per arrivare dove volevo arrivare.

Così, quando ormai questo anno infausto giungeva al suo crepuscolo, io lasciavo cadere il mio bagaglio. Aperta la mano, lo abbandonavo sulla banchina, dove avevo atteso con fiducia tutto quel tempo. Non lo volevo più, quel fardello pesante, ad intralciarmi il cammino.

All’improvviso mi sono voltata, le spalle al binario deserto. Diretta verso l’uscita della stazione, senza guardarmi indietro.

Epilogo

Ora che è la fine dell’anno sono giunta alla fine del marciapiede, lontano dalla stazione. Fuori è ormai buio pesto. È la notte nera di questo nostro tempo. Il buio dell’umanità, che avvolge ogni cosa. Mi stringo nel cappotto, fa freddo in questo inverno della coscienza. Mi accendo una sigaretta, proteggendo il fuoco con la mano. Poi alzo un dito: “Taxi!”, grido all’auto che si avvicina. Alla fine io ed il mio sconcerto di Capodanno ci abbracciamo, come dei vecchi amici. Ce ne resteremo a vagare per tutta la notte in questa città deserta, finché non vedremo l’orizzonte che, piano, albeggia.

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