Lo sport e le rette parallele

Io e lo sport abbiamo sempre avuto un rapporto simile a quello di due rette parallele: non si incontrano mai, ALL’INFINITO.
Quando ero ragazzina non era scontato che dopo la scuola si andasse in palestra, non era cosa da tutti. Lo facevi se avevi una vera e propria vocazione verso qualcosa, che normalmente era uno strumento musicale, il nuoto, il calcio, la danza e pochi altri. Comunque non tutti lo facevano. Io ad esempio, no. I miei genitori spinsero me e mia sorella a frequentare un corso di nuoto, perché “il nuoto fa bene alla schiena”. Lo odiavamo talmente, che dopo qualche tempo ci inventammo delle scuse per smettere di andarci. Anni dopo mia sorella frequentò un corso di arti marziali, ma anche quello per pochissimo.
Tentarono di istradare anche me, ma dopo il giorno di prova decisi per l’astensione. La prospettiva di assistere dagli spalti mi gratificava molto di più. Inoltre trovavo umiliante dovermi esibire periodicamente in saggi e dimostrazioni per soddisfare l’ego dei parenti, che applaudivano ad ogni respiro. Mi faceva sentire una scimmia ammaestrata. E se è vero che tutti siamo un pochino scimmiette ammaestrate da piccoli, portare la cosa all’estremo, non lo trovavo utile.
Diversamente da molti miei coetanei quindi, io non ho mai avuto medaglie e coppe da esibire sulla mensola della mia camera. Sembra anche questo un cliché, ma è una cosa che rischia di minarti l’autostima. Certo, desideravo anch’io eccellere in una qualche disciplina sportiva, prima o poi. Ma trovavo difficile individuare quale fosse la più adeguata, alle mie basse abilità motorie, già fiaccate da anni di poltronite acuta.
Un anno alle medie facemmo una prova di corsa 400 metri per le imminenti gare interstudentesche. Per la maggioranza era un’occasione per stare fuori tutta la giornata al campetto di atletica e mangiare sul prato il panino al prosciutto cotto preparato la sera prima dalla mamma. In quella prova, fui probabilmente invasata dallo spirito di Pietro Mennea, ma feci uno dei tempi migliori. Mi ci volle un po’a metabolizzare, perché al mio indirizzo solitamente erano rivolte sempre frasi poco edificanti ma incisive come : “non sei buona”.
Finì che quella volta mi qualificai per la 400 metri. Quel giorno faceva caldo fin dal mattino presto. Ci vollero ore prima di poter gareggiare. Feci in tempo a mangiarmi il panino di mia madre e fare la conoscenza di un simpatico ragazzetto con gli occhiali di nome Vanni. Ero così ingenua che gli diedi il mio numero di casa e la sera dopo questo mi chiamò. Lo stupore ed il gelo che mi attraversarono quando mia madre mi passò la cornetta, fulminandomi con lo sguardo, erano effettivamente inspiegabili. Cosa pensavo che ci avrebbe fatto col numero, se non telefonarmi?.
Quesiti adolescenziali. Alla fine con Vanni tirai corto, così come con la corsa. Mi convinsi definitivamente che la geometria è una scienza esatta e se dice che le rette parallele non si devono incontrare mai, semplicemente non devono farlo. E basta.

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