Zurigo ’99

Max pippava coca sul bancone in alluminio della cucina. Tirava su col naso, qualche colpetto di tosse ed era come nuovo. Implorava il caposervizio di metterlo al minibar in seconda, mentre c’era chi allestiva la carrozza ristorante per l’inizio del servizio.

A me toccava quasi sempre il welcome drink in prima. La scusa era che nessuno nella brigata parlava il tedesco. Passavo col carrello, che pesava una tonnellata, mentre il treno oscillava vistosamente e in un attimo ero di ritorno. Per il resto mi occupavo di dare una mano in sala o al bar. Col tempo ottenni di poter stare in cucina, più compatibile con il mio essere antisociale.

La seconda non voleva farla mai nessuno e questo provocava a volte accese discussioni ad inizio turno.
Max invece ci stava a palla. Si srotolava le maniche della camicia e si aggiustava cravatta e gilet. Si specchiava nei vetri del bar e prima di partire col minibar diceva: “Come sto?”. Era una domanda impietosa, che avrebbe meritato un’ altrettanto impietosa risposta, ma tiravo corto e lucidando il bancone, con gli occhi bassi gli rispondevo: “Sei a posto”.

La verità era che era messo male. La voce impastata, alternava sprazzi di euforia a momenti di cupezza nera. Andava in giro per il treno con la sigaretta spenta in bocca. Ogni tanto metteva fuori servizio un cesso con la chiave quadra e ci si infrattava dentro a fumare. Quando riapriva la porta una nuvola di fumo scura, densa come un demone infernale, lo seguiva per tutta la carrozza. Beveva come una spugna, per compensare il down tra una botta e l’altra e si fissava che gli canticchiassi “Time is on my side” degli Stones.

Lo tolleravano tutti, perché era uno dei più anziani. Il boss lo metteva in brigata con noi, perché eravamo tutti ventenni e scappati di casa e solo noi avremmo potuto lavorare con un tizio simile. A fine turno lui si eclissava in hotel in solitaria fino all’indomani a combinare chissà cosa. Noi, con ancora la divisa addosso, andavamo in tre a comprare erba al centro di Stoccarda.

Mi allentavo la cravatta, mentre a grandi passi raggiungevamo la piazza principale. Maurizio in testa. Aveva già 35 anni lui, ma l’aspetto di un diciottenne. Non parlava una parola di tedesco, ma per certe cose si faceva capire benissimo. Raccoglievamo i soldi delle mance ed invece di dividerli a fine turno, li mettevamo in questa specie di fondocassa per lo sballo. Poi un’ultima sosta per prendere da mangiare e via in camera.

Spesso prendevamo una tripla per non avere il disturbo di fare avanti e indietro da una stanza all’altra. Ma tra noi c’era un accordo: sballo, ma niente sesso. Per quanto sono stata con loro, non è mai stato infranto.
Passavamo gran parte della notte a fumare e sparare una cazzata dietro l’altra.

Il mattino dopo al binario eravamo stanchi e devastati. Max era già lì ad aspettarci. Si era appena fatto la prima striscia del giorno ed era vispo come un bambino all’asilo. Salivamo e iniziavamo ad allestire per le colazioni.

Max si infilava il pacchetto di Merit nella tasca della camicia, si stringeva il nodo alla cravatta e specchiandosi al bar chiedeva: “Come sto?”. Mi reggevo in piedi a malapena. Senza nemmeno guardarlo gli rispondevo: “Una favola, si torna a casa”.

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