Tre liquerizie

Milano. Stretti da giorni nella morsa di un caldo umido insopportabile. Uscire di casa in queste condizioni è una follia, ma non posso farne a meno. Ho un appuntamento per le 14.30 per una visita. Prendo la macchina rovente sotto il sole, in un momento in cui chiunque con un minimo di buon senso se ne starebbe chiuso in casa con il fondoschiena al fresco.

L’ospedale è una piccola città: parcheggi, stradine, cartelli e frecce, che ti indicano dove andare. Cerco la palazzina 4, ma la direzione che mi indica la freccia è ostruita, perché nonostante il caldo ci sono dei poveri cristi che lavorano. Bucano, spalano e non fanno che accrescere la mia insofferenza. Fa caldissimo. La sigaretta mi ha lasciato in bocca un’incredibile arsura.

Ho una sete disumana, ma non voglio fermarmi e mi dico che una volta finita la visita mi comprerò una bottiglietta di acqua. Proseguo lungo un percorso alternativo e finalmente la vedo a pochi metri da me, ma per quanti passi faccia, la palazzina è sempre lì, non si avvicina mai.

Intanto sulla mia testa il sole è scomparso, lasciando il cielo di un colore tra il grigio e l’azzurro sporco come l’aria intossicata dagli scarichi dei motori. Comincio a correre, perché non ne posso più di camminare a vuoto e finalmente la raggiungo, ma appena ne varco l’ingresso non sono più in ospedale, ma al centro commerciale. C’è una commessa con la divisa all’entrata che mi dice che per entrare devo pronunciare la parola d’ordine. «Io non conosco la parola d’ordine – le dico – non me l’hanno mai chiesta prima».

Mentre col pensiero frugo nei miei ricordi annebbiati dall’afa, ripercorrendo tutto il mio bagaglio mnemonico di numeri di targa, di telefono e codici PIN, mi viene in mente che ho improvvisamente scordato anche il codice pin del bancomat. Quindi se anche volessi, lì dentro non potrei comprare niente comunque, perché in tasca non ho che qualche spicciolo. C’è da dire che se anche questa deviazione al centro commerciale non l’avevo prevista, almeno c’è l’aria condizionata e posso rifiatare. La commessa inizialmente mi guarda strabuzzando gli occhi, come se le avessi detto la cosa più assurda del mondo, poi ci riflette un po’ e mi fa cenno di entrare comunque. «Ma come si arriva da qui all’ospedale?» continuo a domandarmi.

Lentamente comincio a sentire gli effetti benefici del climatizzatore, che mi fa quasi rabbrividire. Questo centro commerciale è stranissimo, non c’è quasi nessuno. «Per forza – mi dico – saranno tutti chiusi in casa». Poi mi viene in contro mio fratello che mi dice che anche lui sta cercando il suo dottore. «Bene, significa che allora la strada è quella giusta» penso. Lo saluto e proseguo come se nulla fosse, ma proprio mentre cerco di fare un altro passo, mi accorgo che le scarpe che avevo ai piedi si sono tutte sciolte per il caldo.

Mi siedo un attimo su una panchina, per guardare meglio ciò che resta di quello che avevo ai piedi. Scuoto la caviglia e vedo cadere a terra i resti del mio sandalo tutto squagliato. Non posso andare dal dottore scalza senza apparire come una una stracciona, devo assolutamente cercare un negozio e comprarne un nuovo paio. Per fortuna sono al centro commerciale e ce ne sono diversi.

I piedi mi fanno molto male. Chissà da quanto sono scalza.

Non mi resta che entrare nel più vicino negozio, senza dare troppo nell’occhio. Nel giro di poco sono già alle prese con la scelta del modello e del numero giusti per me.

Mentre mi esamino i piedi allo specchio, sento qualcuno bisbigliare dietro le mie spalle. Mi giro diverse volte da una parte e dall’altra, ma non vedo nessuno. Il bisbiglio continua perciò decido di incamminarmi tra le torri di scatole ordinatamente posizionate a terra nel negozio, come a formare un labirinto. Ed è proprio quello che sembra a guardarlo bene: un LABIRINTO. Passo dopo passo effettivamente le scatole sono più vicine e meno luce vi filtra attraverso. E’ incredibile quante paia di scarpe possano starci in un negozio così piccolo. Non c’ero mai entrata prima, ma da fuori mi è sempre parso un buco.

Contro ogni immaginazione, alla fine del percorso di scatole, quando finalmente comincio a rivedere la luce al neon del negozio, scorgo sul pavimento una cosa, che mi pare familiare. E’ un pupazzo vestito da clown con un carillon, che suona la Ninnananna di Brahms. Ha un vestitino rosa con stelline colorate ed un cappellino con il pompon dello stesso colore. Il visino è bianco ed ha il trucco tipico dei pagliacci: il naso e la bocca rossi e dei disegni verticali attorno agli occhi. Mi ricordo che me lo regalò mia zia quando ero piccola ed io mi ostinavo a volerci dormire assieme. Dava fastidio a tutti, perché anche solo sfiorandolo, il carillon cominciava a suonare Brahms.

Come se la cosa non fosse già abbastanza strana, mi avvicino e faccio per raccoglierlo pronunciando il suo nome: «Sbirulì…». Mi viene subito in mente che quel nome gliel’aveva dato mia nonna l’inverno in cui lo ebbi in dono.

Quante cose erano diverse a quel tempo, io non ero che una bambina e dormivo al piano di sotto del letto a castello che condividevo con mia sorella.

Quando i ricordi stanno ormai per rapirmi, sento che qualcosa tra le mie mani si muove: è la testa del pupazzo che, come faceva sempre, comincia a girare, solo che quando si trova dritta davanti a me si ferma. «Certo – dice poi, come fosse la cosa più naturale del mondo – e chi volevi che fossi?».

A questo punto sono certa di stare sognando. «Perché ti stupisci tanto, scusa?» continua. Quello che il clown non capisce è che per anni l’ho tenuto sulla mensola della mia cameretta, spolverandogli la testa ogni tanto e mai avrei potuto immaginare che mi sarei un giorno trovata a discutere con lui in un negozio di scarpe. A proposito, adesso che ci faccio caso non sono più scalza, ho ai piedi dei sandali nuovi e davvero molto comodi.

Sbirulì continua a fissarmi ed aspetta che gli dia retta perciò, per quanto mi risulti difficile, mi metto ad ascoltare ciò che ha da dirmi. Lo vedo tirare fuori dalla tasca qualcosa, che poi mi porge con la manina di stoffa bianca aperta. «Tieni queste» mi dice, allungandosi il più possibile verso di me. «Cosa sono?» chiedo, temendo quasi di sentire la risposta. «Sono tre liquirizie, non vedi?» mi dice infastidito dalla mia incredulità «prendile, ti serviranno: al momento opportuno capirai».

Io sinceramente ancora non ho capito niente, ma non voglio farlo irritare ulteriormente, anche perché non so cosa aspettarmi. Prendo queste caramelle e me le metto in tasca. Poi il pupazzo mi dice ancora «so che stai pensando che i pupazzi come me non possono parlare, ma non è detto che quello che tu credi sia vero, lo sia veramente». Io a questo punto non so più cosa dire se non un timido «scusa…». Per cosa poi? chi lo sa.

All’improvviso si volta e fa per andarsene, ma prima mi chiede di giragli la chiave che ha sulla schiena e appena lo faccio, con delicatezza, perché temo di fargli del male, ricomincio a sentire la Ninnananna di Brahms. Non ho assolutamente idea di dove possa andare un pupazzo parlante con un carillon in mezzo ad un centro commerciale, ma senza fare domande gli dico semplicemente «Ciao..». Lui si volta e mi fa «Ciao. Un’ultima cosa: smettila di chiamarmi pupazzo, sono una femminuccia per la miseria, non vedi che ho il vestitino rosa?!?!». Non replico e mi limito a salutarla agitando la mano.

Quando il clown è ormai un puntino piccolissimo, mi volto e me ne vado anch’io verso l’uscita. Non faccio in tempo a varcare l’ingresso, che mi sento tirare per un braccio. E’ ancora la  commessa, che mi impedisce di uscire, indicandomi la via verso la cassa. Riflettendoci ha ragione: ho ai piedi scarpe nuove, che non ho pagato.

La seguo. Alla cassa mi accoglie un’altra commessa arcigna, quasi quanto la prima, neanche fossi una fuorilegge. Il manipolo di cassiere è schierato dietro il bancone e mi attende. Io però non ho in tasca la somma necessaria a saldare il prezzo delle scarpe. Mi appello alla compassione delle arpie. Spero ingenuamente che spiegando loro la situazione mi capiranno e mi lasceranno andare. Ma non è così. La mia giustificazione le fa infuriare ancora di più e decidono di chiamare addirittura il direttore del negozio.

Sono in un pasticcio, dal quale non so come uscire, oltretutto sto facendo tardi: devo ancora andare a fare la visita.

Il direttore del negozio vuole sapere per quale ragione non ho ancora dato alle sue arpie la somma che devo, solo che non è vestito come un normale direttore. Ha addosso un camice da dottore ed in mano la macchinetta del POS. Se solo ricordassi il codice pin!.

Il direttore viene verso di me con aria minacciosa, ad ogni passo diventa sempre più grande ed io più piccola. Faccio per frugarmi in tasca e trovo le caramelle di liquirizia che mi ha dato il mio clown.

Mi sento Alice nella tana del coniglio. Non ho scelta. Ne ingoio una al volo, ma proprio mentre sto masticando la liquirizia, il direttore-dottore comincia a schiaffeggiarmi il viso con forza. Sento le guance bruciare e comincio a gridare tutti i numeri che mi vengono in mente. Spero, nel frattempo, che mi torni alla memoria anche il maledetto pin: numeri di telefono, targhe, date di nascita, ma niente.

Poi all’improvviso il bancone del negozio è diventato un lettino bianco ed io ci sto sdraiata sopra con attorno il direttore-dottore ed altre due infermiere.

«Lasciatemi andare!» grido. «Si calmi» sento dire al direttore-dottore, che ormai è più un dottore, che un direttore «sono il dottor Mancini, aveva appuntamento con me, ma in sala d’attesa ha avuto un malore». Mi sento un po’ sollevata: era solo un sogno, allora. Mi danno dell’acqua da bere e all’improvviso sento una musica lontana: è la Ninnananna di Brahms! «Da dove viene questa musica?  – chiedo – non può essere una coincidenza!». «E’ soltanto la suoneria del mio telefono, stia tranquilla, potrebbe essere ancora in stato confusionale. Si metta a sedere e resti così ancora qualche minuto» mi dice il dottore col telefonino in mano.

Appena mi sento meglio, mi alzo per chiamare qualcuno che mi porti a casa. Uscendo dal padiglione mi metto la mano in tasca. Ci trovo cartacce, scontrini, qualche spicciolo. Mi rendo conto solo in quel momento di avere ancora due caramelle alla liquirizia, QUELLE CARAMELLE e della terza solo la carta.

 

Related Posts

Begin typing your search term above and press enter to search. Press ESC to cancel.

Back To Top

Newsletter 😉

Iscriviti alla mia newsletter per rimanere aggiornato/a, ricevere inviti su eventi e sconti

Ho letto e accetto i termini e le condizioni