L’ansia dell’attesa

L’ansia dell’attesa. Il limbo di incertezza che ti separa da un esito. Un misero pezzo di carta o non più di qualche byte di posta elettronica.

Centomila almeno, in un giorno. Tutti sulla stessa barca, si dice. O meglio in fila, uno davanti all’altro, ad aspettare. Una coda sciatta e disordinata, che si autoalimenta a rabbia ed insofferenza col passare delle ore.
Un’attesa che non vuoi, a cui sei costretto. In un momento storico in cui un grado in più della scala Celsius dice a tutti chi sei o cosa sei. Positivo, negativo. Sano, infetto. Portando a compimento un malefico disegno dualista che ci vuole contrapposti gli uni agli altri. Tutti contro tutti a giocare una distopica partita col destino.
Al tuo turno entri nel tendone blu. Quando attendi tanto da perdere la cognizione del tempo, ti fai fare qualsiasi cosa. L’importante è andarsene da lì.
Il cielo sopra di noi intanto ha cambiato faccia. Da caldo e opprimente a grigio color della neve sporca ai bordi delle strade. È Milano.
Sbuffa talvolta, brontola. Forse anche a lui non piace ciò che è costretto imperterrito ad osservare da lassù. Cazzate, probabilmente. Come se esistesse un Dio cinico e anche un po’ stronzo, che gode nel vederci affogare.
Siamo alla deriva, infatti. Qualcuno pensa sia una buona idea scagliare le forze dell’ordine contro quelle due, che da ore stanno sotto al tendone bardate come cavalieri crociati, con una cannuccia in mano. È solo un cambio turno, infondo. Ma non basta: devono pagarla cara.
Invochiamo la coscienza sporca italica del “siamo tutti colpevoli, fino a prova contraria” e condannati a questa merda “finché morte non ci separi”.
Ma è finita ed è qui che l’incubo cambia. Non finisce, cambia.
Ci sono un milione di altre stanze buie da oltrepassare per la fine del corridoio in cui sei intrappolato. Questa è l’attesa. Di un responso, qualunque sia. Di quel dannato byte, che cambierà la partita.
Ti mette sempre davanti qualcosa di apparentemente insignificante a separarti da ciò di cui hai bisogno. Libertà, voglia di fare, essere come cazzo ti pare.
Ma non è abbastanza, non è perfetto. Il disegno vuole che ciascuno sia certificato ed autorizzato ad esistere, a respirare.
La ingoi questa medicina del sistema. Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, ti insegnavano da bambino. Ma delle controindicazioni nessuno ne parla.
Aspettare, non ti si chiede altro, infondo. A casa tua, comodo sul tuo divano. Pensa ai nonni, che son partiti per il fronte. Sei fortunato, hai Netflix, tu.
Certo, potresti sentirti un po’ solo, inerme, ISOLATO. Un inutile povero cristo, che sobbalza ad ogni squillo del telefono. Poi rifiata però, quando scopre che era il call center di Sky. In un altro momento gli avresti sbattuto il telefono in faccia, ora quasi vuoi farci due chiacchiere e lui si presta. È tanto raro qualcuno che non risponda: “guardi, ora non ho tempo”.
Alla fine ti arriva quella telefonata e per stavolta puoi tornare in libertà. NEGATIVO. È un termine di merda, ma in questo tempi scellerati è un lasciapassare.
Le gabbie si riaprono, esci dal recinto e ricominci a pascolare nel “gregge”. Ultimamente  anche i termini bucolici sono ritornati di moda.
C’è un uomo nuovo che ho incontrato in questo mio incubo. Un personaggio astratto da sé alla Aldous Huxley. O quello descritto da Hobbes, l’uomo lupo tra gli uomini, forse.
Solo che il lupo un codice morale ce l’ha e anche se si mangia Cappuccetto Rosso e sua nonna, del suo branco non si dimentica mai, neppure se sta affogando.

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